Care amiche e amici di Donneingamba, oggi Gordiano Lupi con la sua grande sensibilità ci regala una meravigliosa recensione del libro "La Gioia e il Lutto" di Paolo Ruffilli.
Spero che vi piaccia come è piaciuta a me.
Buona lettura.
Paola Giannessi
Imbattersi in un grande libro di poesia scritto nel 2004, colpevolmente scoperto soltanto oggi, in una storia potente, narrata in versi, di facile comprensione, al tempo stesso leggibile e profonda, come solo i grandi scrittori sanno fare. Protagonista un giovane tossicodipendente che muore di Aids e un padre che perde quel che ha amato davvero, sa che non gli verrà strappato, ciò che sembra una perdita sarà la sua vera eredità. Un poemetto ricco di immagini evocative e drammatiche, l’immagine di un figlio diventato la metà e meno / di se stesso, / rinsecchito dentro i panni / fatto vecchio e cadente / nel fiore dei suoi / anni, nel pieno di una vita già appassita. L’enjembement pascoliano usato per dare cadenza, conferire musicalità a un testo profondo, pieno di sentimento. Il male, consumandolo / gradino per gradino / lo ha eroso e / via accorciato / riportandolo allo stato / dipendente di bambino. Torna onnipotente il padre nei confronti di un figlio consumato da un oscuro male, un ragazzo smarrito e spaventato che implora soltanto d’essere salvato. La gioia e il lutto è grande poesia che chiede di essere letta più volte e che va metabolizzata, non basta una lettura superficiale, necessita profondità di analisi anche in chi vuole immergersi in un lavoro drammatico, quasi teatrale. Potenti come pochi giungono i versi della sconfitta paterna, di chi si rende conto di aver perduto la persona più importante della sua vita e di non avere più il tempo per rimediare.
Per che ragione
non mi sia
sforzato prima
di capire?
È colpa mia.
I fiumi di parole
a te che mi chiedevi,
che pretendevi
appoggio e simpatia
da me, opere vive.
Ti ho dato prediche
per comprensione:
sentenze, direttive
e ammonizioni.
Ti ho tradito
nelle aspirazioni,
rassegnato mio malgrado
all’avidità del mondo
e ai suoi costumi.
Ti ho lasciato solo.
Peggio, respinto
e calpestato.
Sbandato per inerzia
io, caduto
nelle contingenze,
convinto a farti astuto.
Non ti sei perso,
no, sono io
che ti ho perduto.
La storia di un ragazzo alla deriva, così diverso dalle aspirazioni dei genitori, così distante da come lo avevano creduto, che con la malattia perde la fede in se stesso, va alla deriva della vita, giovane uomo disfatto e spento. Si finisce per capire di aver perso tempo in cose inutili, senza dirsi mai quel che davvero conta, sprecando la vita in futili misfatti, mentre il ragazzo avanza verso un varco dove è destinato a scomparire. Sperare in un’anima immortale mentre vedi un giovane spegnersi poco a poco, la sola possibilità per accettare una confusa e infame faccenda terminale.
Muore il corpo
ma non muore,
forse, la coscienza.
Cresce e si potenzia
proprio mentre
il suo contenitore
procede sulla via
di una progressiva
decadenza
e, all’atto del distacco,
neppure più si arresta
contro il muro
dell’assenza.
Non cessa affatto
l’attesa del futuro.
Il lutto imminente che chiama la vita, monologhi che cedono il passo a dialoghi mentre il poeta s’interroga sul senso della vita e sulla funzione della morte, senza la quale non ci sarebbe niente, neppure la speranza. La morte, in fondo, come condizione essenziale per la sopravvivenza della specie. Bellissimo.
Letto in edizione bilingue, italiano e inglese, con traduzione di Padraig J. Daly.
Gordiano Lupi
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